Lo split screen: l’inquadratura dinamica
Come creare immagini che funzionano: lo split screen
Settimo appuntamento con i quotatissimi tutorial di Fabrizio Fogliato, in uscita a breve con il nuovo libro su Paolo Cavara. Oggi parleremo di split screen: di cosa si tratta?
Della possibilità di dividere lo spazio su schermo in molteplici inquadrature, impaginate attraverso una disposizione più o meno geometrica delle immagini.
Inutile dire che l’avvento dell’editing non lineare digitale ha rinvigorito questa pratica e l’ha resa molto più facile da eseguire.
Tuttavia si tratta di una strategia narrativa ben più consolidata, risalente addirittura alle origini del cinema. Ma non anticipaimo nulla, e lasciamo spazio a Fabrizio Fogliato.
Lo split screen
L’idea di scomporre l’inquadratura in parti diverse e di compiere quest’operazione a fini narrativi si è sicuramente perfezionata con l’avvento del cinema digitale. Nel passato si è utilizzata l’inquadratura multipla per ovviare a scelte di montaggio. O per amplificare i fini spettacolari della messa in scena.
Il più famoso, certamente, ma non il primo, esempio di utilizzo di quello che chiameremo split screen si ha con il Napoleon (1927). Film che, per scomporre lo schermo in tre parti e in ognuna di esse mostrare immagini diverse, utilizzò il sistema Polyvision costituito da tre diverse macchine da presa e da tre diversi proiettori.
Moltiplicare le inquadrature offre una serie di possibilità altrimenti negate al montaggio. Cioè quelle di sincronizzare più eventi all’interno di un’unica inquadratura. Oppure quella di raggruppare in un unico quadro due o più eventi che avvengono con diversa dislocazione spaziale. E diverso sincronismo temporale ma che, con lo svolgersi della storia, sono destinati a convergere.
Certo è che in entrambi i casi viene capovolto il punto di vista del montaggio. Che non è più realizzato dalle mani del montatore ma che viene lasciato alla libera associazione di idee dello spettatore.
Applicazioni classiche
Una delle applicazioni più immediate (ma anche più banali) dello split screen è sicuramente quella di applicare l’inquadratura multipla alla scena di una telefonata. Permettendo di stringere in un’ unica immagine emittente e ricevente.
Ovvio, quindi, che il rischio sia quello di utilizzare questo strumento di linguaggio in maniera troppo prevedibile e didascalica.
Uno degli esempi più interessanti di utilizzo “creativo” dell’ immagine multipla lo troviamo nel film Pillow Talk (Il letto racconta, 1959). In cui la moltiplicazione dei riquadri nella singola inquadratura, oltre ad assumere le forme più impreviste (triangoli, rettangoli e quadri a dimensione diversa). Ottiene sorprendenti effetti narrativi e in alcuni caso esprime un sotto-testo erotico imprevisto e impensabile nel caso di un montaggio normale.
Nella sequenza in cui i due personaggi sono ognuno a casa propria. Immersi nella vasca da bagno, nello split screen i loro piedi nudi si congiungono “miracolosamente”.
Scelta che il regista dimostra di aver ricercato tanto negli effetti manifesti quanto nel sotto testo erotico. Nel momento in cui con gesto repentino, dopo il “contatto”, la donna ritrae la gamba.
Altro esempio sorprendente, al limite del vertiginoso è rappresentato dalla sequenza della rapina ne The Thomas Crown Affair (Il caso Thomas Crown, 1968) di Norman Jewison. La sequenza in questione e organizzata secondo diverse modalità che danno vita a molteplici composizioni di immagini all’ interno di un unico quadro.
Immagini diverse nello split screen
Le singole immagini assumono di volta in volta dimensioni e forme diverse ma anche un alterno dinamismo volto a restituire allo spettatore tutta la concitazione del momento e a trasmettere a chi guarda la stessa adrenalina vissuta dai personaggi.
Quello che sorprende è però il fatto che la sequenza non mostri la rapina vera e propria. Bensì la telefonata che la precede. Scelta non casuale visto che qui lo spettatore è chiamato ad essere testimone. E parte attiva della messa in scena. Fattore questo accentuato sia dall’ uso della sfocatura quanto dall’ utilizzo della profondità di campo.
Uno degli esperimenti più “singolari ed estremi” dell’ utilizzo dello split screen è senza dubbio quello fatto da Andy Warhol per il suo The Chelsea Girls (1967). Il film di Warhol della durata di 194min, è costituito da 12 episodi. Tutti proiettati su un doppio schermo. Che scorrono seguendo un parallelismo asincrono. In ognuno dei quali, in un unico estenuante piano-sequenza di 30 minuti, viene raccontata la vita di alcuni giovani che vivono nelle varie stanze del Chelsea Hotel di New York.
Privo di trama e senza che gli attori vengano diretti, The Chelsea Girls si limita a riprendere personaggi. Che non fanno altro che vivere, registrando la loro voce in presa diretta. E inquadrandoli in campo fisso, dove solo alcuni movimenti nervosi e scoordinati della cinepresa li risvegliano dal torpore apparente. E li spingono ad interpretare un ruolo. Per chi fosse interessato ad approfondire in merito rimando alla lettura della mia monografia su Abel Ferrara.
In tempi recenti lo split screen si è imposto come forma espressiva. Del resto, particolarmente originale ed efficace.
Contemporaneità di visione
Non va infatti dimenticato che la veste grafica con cui viene attuata l’inquadratura multipla rimanda direttamente alla contemporaneità. E all’utilizzo di micro schermi o di “quadri nel quadro” a cui l’uso di tablet e smartphone ci hanno ormai abituato.
A tal proposito vale la pena ricordare l’utilizzo che Darren Aronofsky fa dello split screen nel suo Requiem for a Dream (2000). Contravvenendo le modalità fin qui illustrate il regista scompone l’inquadratura in senso “esistenziale”.
In una sequenza Aronofsky utilizza lo split screen per mostrare personaggi che occupano lo stesso spazio. E che, quindi, avrebbero potuto tranquillamente essere inquadrati con un totale o un campo medio. La scelta è dettata dalla volontà del regista di trasmettere allo spettatore la loro lontananza psicologica ed esistenziale.
Inoltre, l’effetto acuisce la sensazione che pur essendo vicini i personaggi siano in una situazione di incomunicabilità. Oltre che segnati da un destino differente.
Split screen puro
Negli ultimi tempi, infine, si è andata affermando una tecnica che non potremmo definire split screen “puro”. Ma che ad esso è contigua tanto nell’ effetto visivo quanto nel risultato e nel significato. Si tratta dell’ accostamento di immagini diverse riprodotte da monitor, video camere di sorveglianza o altri dispositivi di controllo.
L’effetto, apparente, è quello da reality show. In realtà si tratta della riproposizione della situazione voyeuristica. In cui uno o più personaggi sono spiati nel loro agire (indipendentemente da ciò che fanno). Lo spettatore acquisisce dunque una serie di informazioni oggettive decisamente maggiore di quelle a conoscenza del singolo personaggio.
Anche in questo caso si gioca su una consuetudine. Quella spesso e volentieri proposta da telegiornali o altri canali di informazione che mostrano fatti più o meno tragici (ad esempio rapine, furti, fermi di polizia). Lo fanno attraverso uno schermo (diviso in quattro parti uguali e simmetriche) all’interno del quale si può osservare la stessa scena. Da diversi punti di vista e con campi e piani differenti.
Timecode
Mike Figgis nel suo Timecode (2000) affianca in un unico schermo quattro piani-sequenza (della durata dell’ intero film). In cui in ognuno di essi si possono seguire le vicende di personaggi legati tra loro da relazioni erotico-sentimentali.
Il regista abilmente diffonde lungo tutta la durata del film segnali indiretti. Che fanno capire allo spettatore che il tutto si svolge simultaneamente all’ interno della stessa unità temporale.
Il regista che, però, ha sondato le innumerevoli possibilità di utilizzo dello split screen è senza dubbio Peter Greenaway. Cui si rimanda la visione delle sue opere a partire dal 2003, anno in cui porta a compimento The Tulse Luper Suitcases – Part 1. The Moab Story.
Il suo lavoro e in realtà il frutto di una continua ricerca sulle possibilità del digitale. Sulle sovrimpressioni, sulla scomposizione del quadro e sull’ uso intrecciato di supporti diversi. Nella definizione di progetti visivi sempre più complessi, articolati e sperimentali.
Nello scandagliare le possibilità multimediali offerte dal digitale Greenaway rielabora anche il colore e il bianco e nero. Ritaglia la ripresa e settorializzazione lo spazio, il tutto per restituire allo spettatore un affresco digitale (di matrice rinascimentale). In cui le arti che compongono il cinema si fondono indissolubilmente. Per donare all’immagine una plasticità e una potenza figurative altrimenti impensabili.
Film consigliati:
Requiem for a Dream (USA, 2000) di D. Aronofsky
Ogni marchio ed ogni immagine vanno intesi a scopo di esempio didattico e appartengono ai legittimi proprietari.
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