La maschera: gestire personaggi e sensazioni per creare immagini efficaci
La maschera e le sue implicazioni
La maschera: icona contraddittoria della rappresentazione cinematografica. Dentro il volto si nascondono pura immagine ed espressione, forza cinetica e rappresentazione del personaggio.
Partiamo per questa quarta lezione: alla ricerca della centralità del volto nell’inquadratura cinematografica.
Facciamoci accompagnare per un sentiero colmo di significati, ottimo spunto per riflettere sul senso del personaggio. Delle sue scelte, della complessità simbolica di un elemento così misterioso ed affascinante come il primo piano.
La maschera
Nella Francia degli anni ’20, alcuni studiosi di cinema come Delluc e scrittori come Colette, individuano nella settima arte il concetto di fotogenia.
Difficile definire questo termine con parole semplici, ma lo si può assimilare genericamente con la forza espressiva del volto dell’attore/attrice.
Lo schermo deforma, acuisce, “trasforma” il volto umano. Attraverso l’uso sinergetico della luce gli conferisce una ambiguità straniante che lo rende leggibile sia ad un livello visivo che ad un livello introspettivo. Vediamo come.
Nel film The Cheat (I prevaricatori, 1915) di Cecil B. DeMille, viene realizzato un originale uso della luce e del chiaroscuro da parte del direttore della fotografia Alvin Wyckoff.
Il quale, applica, per la prima volta, il sistema di illuminazione messo a punto dal produttore Jesse L. Lasky noto come “illuminazione Lasky” oppure “illuminazione alla Rembrandt“.
Questo prevede la messa in ombra quasi totale della scena. Illuminata da un’unica enfatica fonte di luce, spesso di taglio orizzontale su un personaggio o un oggetto. Dando forza all’effetto di profondità dell’immagine.
Tramite questo espediente, il volto dell’attore giapponese Sessue Hayakawa assume i connotati di una maschera.
Lineamenti sfuggenti della maschera
I lineamenti del viso dell’attore nipponico non sono nè particolarmente accentuati, né presentano caratteristiche particolari.
Ma nonostante ciò la sua è un maschera imperturbabile, asettica nella sua fissità e inquietante nella sua bellezza.
Un volto “illeggibile” capace di nascondere tanto il Bene quanto il Male. Al punto da assumere sullo schermo una totale estraneità rispetto ai canoni tradizionali del volto umano ripreso in primo piano.
La scena in cui si materializza lo scambio, non rispettato, tra sesso e denaro. Tra Edith (Fanny Ward) e Arakau (Sessue Hayakawa). Questa è incentrata sulla dominante retorica della luce, attraverso il cui uso espressivo, vengono amplificati l’erotismo, la violenza e la perversione.
Il momento centrale è quello in cui, Haka Arakau, marchia a fuoco la spalla della donna certificandone il suo possesso.
L’utilizzo straniante ed espressionista del primo piano, conferisce alla scena tutta la carica eversiva e scandalosa. DeMille la costruisce attorno al binomio peccato/colpa.
Ambiguità della maschera
La maschera dell’attore giapponese è dunque un concentrato di ambiguità.
Nel primo piano che la ritrae convivono coerentemente: perfidia e affetto, invidia e prevaricazione, amicizia e pericolo, fascinazione ed orrore.
Il concetto di fotogenia, dunque, definisce la separazione tra percezione diretta (dell’immagine) e rappresentazione (della stessa). In cui quest’ultimo concetto diventa letteralmente immagine mentale. Cioè quella parte della visione delle immagini in movimento che contiene l’aspetto latente (cioè inconscio) della sua forza espressiva.
L’assunto di The Cheat, è dunque questo. Nel primo piano di un volto umano si sommano la stessa complessità e varietà di un paesaggio.
L’aspetto facciale diventa insomma, manifestazione di stati d’animo molteplici ed eterogenei. Che confluiscono nella sua continua dinamicità legata al succedersi di sfumature luminose.
L’analisi va dunque allargata al concetto di primo piano, codice primario della fotogenia. Che isola il suo oggetto dal resto dell’inquadratura, lo rende astratto e imperscrutabile. Separa il volto umano dal resto del corpo.
Il volto che crea spaesamento
Non è una frattura quella che si verifica bensì una “trasformazione” che avviene attraverso un a modifica delle proporzioni.
Mentre nel passaggio tra campo medio e totale, piano americano e mezza figura non si avvertono particolari modifiche espressive, nel passaggio dalla mezza figura al primo piano il salto è abissale.
Lo stacco sul volto del personaggio provoca spaesamento in chi guarda. Tradisce negli occhi dello spettatore fascinazione e repulsione inconscia.
Con il primo piano si attua una sorta di stordimento dettata dal rendere “visibile l’invisibile” che avviene attraverso il “paesaggio” del volto umano nella sua fissità.
Immagine d’affezione
Quello che Gilles Delueze ha chiamato immagine affezione. Un’immagine cioè in cui solo apparentemente tutto è immobile e che si distingue sia dall’immagine percezione (la riproduzione del movimento) che dall’immagine azione (quella che costituisce il cinema narrativo).
L’immagine affezione è legata al concetto di primo piano, inteso come un livello doppio. In cui si integrano intensità (movimenti impercettibili della pelle, desiderio, paura…) e riflessione (il piano del pensiero).
Chi più di ogni altro ha utilizzato il primo piano in questa funzione è sicuramente Alfred Hitchcock. Il quale attraverso la forza dirompente e sconvolgente del P.P. e la sua (apparente) bidimensionalità, ha progressivamente annullato la profondità di campo in favore di immagini piatte e “verticali”.
Immagini he incombono sullo spettatore, creando su tutte, una “maschera” immortale quale è quella di Norman Bates in Psycho (1960).
Utilizzando l’illuminazione con modalità tese ad evidenziare l’ambivalenza psicologica del personaggio, Hitchcock mostra la schizofrenia di Norman Bates.
Il volto “angelico” e rassicurante di Anthony Perkins è una maschera perfetta dietro a cui si possono nascondere irrisolvibili devianze psichiche.
Per tutta la durata del film l’ambiguità è un dato leggibile nel volto del personaggio. Di volta in volta il suo primo piano confonde, destabilizza e interroga lo spettatore.
Ed è solo nel finale (un po’ pacchiano) in cui il suo volto è sovrapposto a quello scheletrico della madre, si ha l’evidenza della malattia mentale fino ad allora solo suggerita.
L’ultima immagine, che ne mostra la condizione di dissociato, in cui al corpo dell’uomo corrisponde la voce della madre mostra, in modo (quasi) subliminale, la presenza della sua doppia identità. E il ghigno che si disegna sul suo volto, diventa simbolo del suo personaggio. Al punto che, questa maschera ghignante, sarà l’immagine conclusiva dei vari seguiti del film.
Simbologia e introspezione della maschera
Recentemente, è un regista come David Fincher a mostrare tutte le potenzialità della maschera, attraverso il personaggio di John Doe (Kevin Spacey) in Seven (USA,1995).
Fincher tende con il suo cinema a mostrare l’etica e la morale individuale dei suoi personaggi. Tutti immersi in un contesto complesso e millenaristico all’interno del quale emerge la loro patologica condizione.
Si tratta di uomini e donne (buoni o cattivi non ha importanza) vittime di uno smarrimento interiore provocato dall’ambiente che li circonda.
Il primo piano di John Doe in Seven, mostrato attraverso un’illuminazione piatta e ovattata, volta a rassicurare lo spettatore, è l’emblema della “banalità del Male” nella società contemporanea.
John Doe è un personaggio che vive uno stato cronico di disgregazione psicologica, emotiva e sociale, che nelle intenzioni di Fincher diventa archetipo di quella di ogni essere umano della società di fine millennio.
Volti iconici e indefiniti
La maschera di John Doe è dunque un volto iconico, che nella sua impassibile tranquillità ripropone, in chiave moderna, le stesse caratteristiche e la stessa ambiguità di Haka Arakau e al contempo ne traduce tutta la fascinazione e repulsione tipica del primo piano nell’epoca del cinema classico.
Non a caso, è proprio David Fincher il regista, che più di ogni altro nell’epoca moderna, ha fatto propri i codici del cinema classico, reinventandoli alla luce di un’estetica millenaristica e proponendo personaggi che come John Doe sono divenuti simbolo del cinema contemporaneo.
Film consigliati:
Seven (USA, 1995) di David Fincher
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