Empatia e affinità con l’immagine
La psicologia del cortometraggio: creare empatia con lo spettatore e i protagonisti
Eccoci tornati. Oggi si parla di empatia con l’immagine. Bell’argomento, vero? Prima di tutto però facciamo un po’ di domande.
Come sono andate le sperimentazioni? State girando il vostro primo cortometraggio?
Mi è arrivata qualche mail in questi giorni, spesso con domande e proposte. Dico a tutti: grazie per l’affetto dimostrato.
Abbiate solo un po’ di pazienza. Presto ci occuperemo anche di molti altri argomenti. Partiamo!
Intanto però rispondo ad Elisa. Che chiede il motivo di un approccio tanto “riflessivo” verso un argomento così pratico come il cortometraggio.
Cara Elisa,ricordi cosa recita la regola aurea n°1? La fase che considero cruciale nella realizzazione di un progetto video è proprio la sua stesura.
Non solo per una questione pratica ed economica. Quanto perché in fase di pre-produzione può essere evitata la maggior parte dei problemi che poi affliggeranno le riprese.
Problemi tecnici, ovvio, ma soprattutto strutturali, contenutistici e di ideazione. Fare senza pensare – e pensare bene – è solo una perdita di tempo.
Puro esercizio motorio. Capito perchè tante parole ancora prima di cominciare? Torniamo a noi.
Empatia con l’immagine. Il significato dell’inquadratura
Dicevamo. Empatia ed affinità con l’immagine. In queste prime lezioni ci siamo occupati di quali accorgimenti deve assumere la scrittura quando è costretta a scontrarsi con la ripresa video-cinematografica. Sospendiamo un poco questo argomento, senza smettere di rifletterci sopra, e prendiamoci una piccola pausa.
Puntiamo ora la luce, ad esempio una Arri Plus 650w, sulla persona che esegue le riprese, ed occupiamoci di un argomento spesso sottovalutato. L’essenziale, doverosa empatia tra la tecnologie utilizzate e l’individuo chiamato ad impiegarle. Cosa voglio dire? Mi spiego subito.
Ormai da anni, tanto la cultura quanto i media, promuovono l’ipotesi di una prossima ed ineluttabile adesione (alcuni parlano addirittura di “innesto”) tra le protesi tecnologiche e l’essere umano. L’argomento è quantomai vivace.
Ibridi più o meno mostruosi di uomini-macchina, uomini-robotici, individui progettati e programmati come fossero computer. Queste e altre visioni futuristiche percorrono le pagine delle riviste di scienza come quelle di costume.
Connettersi con empatia
Mai come oggi, infatti, l’idea di “connettersi” ai mass media sembra attuale. Dopo un periodo di semplice fruizione delle postazioni tecnologiche, sembra arrivato il momento per l’umanità di realizzare quell’integrazione partecipativa (sul modello del web 2.0) che tanto affascinava gli scrittori di fantascienza del secolo scorso e che tanto solletica i bio-ingegneri contemporanei.
Fuor di metafora, voglio dire che oggi più che mai le interfacce sono semplici e friendly, le opzioni immediate e intuitive, i comandi ergonomici e sicuri.
Eppure, se moltissima attenzione è dedicata allo studio dell’interazione fisica tra uomo e macchina (sia essa un computer oppure,come nel nostro caso, una cinepresa), nessuno si occupa di quale atteggiamento occorre sviluppare per creare quest’innesto e quale finalità esso abbia.
Non di certo uno scopo soltanto pratico (velocità nell’azione, precisione, durata). Quanto piuttosto il raggiungimento di uno stadio di sensibilità e percezione fuori dal comune. L’empatia, appunto.
Empatia con l’immagine. L’unione tra operatore e occhio digitale
Tutti sappiamo che le macchine sono la “innaturale” estensione delle nostre capacità. L’automobile serve a correre più forte delle nostre gambe. Il telescopio amplifica la portata dei nostri occhi. Il computer calcola più velocemente della mente umana.
Nella stessa maniera la cinepresa serve a catturare e trattenere immagini meglio di quanto riuscirebbe a fare la nostra memoria.
E poi, serve a trasmetterle, ovvero condividerle con altri. Tuttavia dietro la cinepresa c’è sempre un uomo. E solo quando dall’interazione tra i due nasce una vera e propria simbiosi, è possibile che si verifichi quella strana e magica alchimia che permette all’immagine di oltrepassare lo stadio di semplice “quadro in movimento” per arrivare a toccare le coste di quella misteriosissima terra che siamo soliti chiamare “emozione”.
La finalità ultima dell’azione di ripresa mira a raggiungere questa fusione.
Empatia ed osmosi con l’apparecchio
Empatia con lo strumento di registrazione, dunque, significa sviluppare un talento di immedesimazione. Tale da considerare gli apparecchi da ripresa come delle vere e proprie appendici (analogiche o digitali) del proprio organismo.
Il buon cameraman, il buon regista, dunque, non è chi impara i segreti della macchina da presa sviscerando le funzioni dal manuale utente. Oppure chi interiorizzando (a mo’ di filastrocca) le caratteristiche tecniche, ne è un esegeta.
Il buon operatore è chi riesce nella difficilissima funzione di “scomparire” all’interno della telecamera. Fondendosi con essa, coi suoi movimenti, con le sue estensioni. Riuscendo a trasmettere – attraverso questa – gli stati d’animo, le tensioni emotive che si avvertono assistendo in prima persona alla scena.
Meglio. Proprio attraverso la macchina (che funge da estensione del corpo, da amplificatore) il pathos della scena può crescere. Crescere fino a raggiungere quelle vette di espressività tipiche dei capolavori della settima arte.
Empatia verso l’esterno nel rapporto uomo-macchina
Potremmo inerpicarci per discussioni specialistiche in merito all’ibridazione uomo-macchina (argomento di certo affascinante, ma qui fuori luogo). Tuttavia possiamo affermare che, per trasmettere anche solo una parte della ricchezza espressiva delle scene riprese, occorre prima di tutto risolvere qualsiasi tensione tra operatore, regista, attori e macchina da presa.
Una forte confidenza tra i soggetti coinvolti nel lavoro può agevolare questo processo.
Di certo però spetta all’operatore maturare una propria fluidità ed una propria autonomia rispetto alla strumentazione tecnica. E – nello specifico – rispetto agli strumenti di registrazione.
La morbidezza del movimento, la prontezza dello sguardo e della percezione, la sensibilità nel cogliere l’attimo giusto. La fulminea reazione intellettuale (di fronte ad un movimento, un gesto, il comparire fuggevole della Bellezza in scena).
Così come la delicatezza nell’affrontare situazioni problematiche e ricche di sfaccettature. Queste sono solo alcune delle doti che un cameraman-regista-filmmaker deve sviluppare.
Obiettivi che possono essere raggiunti attraverso un atteggiamento paziente, sereno e concentrato. Solo in questo modo l’operatore sarà in grado di conferire all’inquadratura la giusta densità poetica e la corretta intensità emotiva. Ecco perchè è prioritario imparare a sviluppare empatia e affinità con l’immagine e con il mezzo di ripresa video.
Sviluppare una empatia consapevole
Nell’atto della ripresa, il congiungimento tra movimento della telecamera e sensazione tattile/cerebrale dell’inquadratura deve essere totale.
Se associato ad un sapiente lavoro di creazione estetica dell’inquadratura e ad una grande sensibilità espressiva, la qualità del filmato assume caratteristiche impensabili e l’empatia sale a livelli estremi.
Tali da risvegliare nello spettatore sensazioni intense e destabilizzanti quali compassione, angoscia, felicità, disgusto, partecipazione, euforia. Sospiri, lacrime e risa.
Film consigliati
Grizzly man (Usa, 2005) di Werner Herzog
Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (Bom, yeoreum, gaeul, gyeoul, geurigo, bom, Corea del Sud-Germania, 2003) di Kim Ki-Duk
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Questo post è davvero interessante. Ma solo la pratica può sviluppare questa che chiami empatia? Grazie assai e dacci dentro con il sito! 😉
Matteo Zimatore
Secondo me, le sole cose che possono sviluppare l’empatia sono la concentrazione e il tempismo. Non intendo la velocità, quanto il saper cogliere la cosa giusta al momento giusto. Fosse facile… 😮
Grazie, e in bocca al lupo anche a te.
Thomas
Ho visto Grizzly Man e sono rimasta impressionata. Un grande film: indimenticabili le facce degli intervistati, magiche le atmosfere e le avventure. Pur non conoscendo Tim ho percepito la sua grande umanità.
Maria
Anche noi, Maria. Un film che va visto, soprattutto dai professionisti.
Come dice Herzog, un involontario filmmaker ottiene immagini che le grandi troupe di Hollywood si sognano per tutta la vita.
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